Basta accendere la TV o scrollare il nostro smartphone perché tutte le nostre certezze siano minate dal dubbio. Guerre, cronaca nera, politica: tutto sembra sopraffarci. A volte abbiamo una percezione davvero triste se non spaventosa del mondo che ci circonda ed ogni decisione non sembra più quella giusta. Cose su cui fino a ieri ci potevi mettere la mano sul fuoco oggi non esistono più o sono state sopraffatte da altre cose sconosciute spesso evanescenti se non pericolose.
Viviamo in un’epoca caratterizzata da rapide trasformazioni e incertezze costanti. Tra crisi economiche, cambiamenti climatici, instabilità geopolitiche e progressi tecnologici sempre più veloci, è naturale sentirsi sopraffatti dall’incertezza. La psicologia ci offre strumenti utili per affrontare questi stati d’animo e per imparare a gestire il dubbio in modo costruttivo.
Perché l’incertezza ci spaventa?
L’essere umano ha una naturale tendenza a cercare sicurezza e prevedibilità. L’incertezza, invece, attiva aree del cervello associate allo stress e all’ansia, rendendoci più inclini alla preoccupazione. Quando non sappiamo cosa accadrà, il nostro cervello tende a immaginare scenari negativi, un fenomeno noto come “pregiudizio della negatività”.
Strategie psicologiche per affrontare l’incertezza
Accettare l’incertezza come parte della vita Resistere all’incertezza genera ulteriore ansia. Accettare che alcune cose sfuggono al nostro controllo aiuta a ridurre lo stress.
Allenare la flessibilità mentale La capacità di adattarsi ai cambiamenti e di riformulare i problemi in modo costruttivo è essenziale per affrontare le sfide inaspettate.
Praticare la mindfulness Tecniche come la meditazione aiutano a rimanere ancorati al presente, riducendo il rimuginio su eventi futuri incerti.
Sviluppare un atteggiamento proattivo Concentrarsi su ciò che è sotto il nostro controllo, come le nostre reazioni e scelte quotidiane, permette di sentirsi più padroni della propria vita.
Creare reti di supporto Condividere dubbi e timori con amici, familiari o professionisti della salute mentale aiuta a relativizzare i problemi e a trovare nuove prospettive.
La resilienza è la capacità di affrontare le avversità e di adattarsi ai cambiamenti. Svilupparla permette di non lasciarsi sopraffare dalle incertezze e di trovare opportunità anche nelle difficolt
L’incertezza è inevitabile, ma la psicologia ci insegna a gestirla con strumenti pratici e un atteggiamento mentale positivo. Imparare ad accettare il dubbio, coltivare la flessibilità e costruire un solido supporto emotivo può fare la differenza nel nostro benessere quotidiano. In un mondo in costante mutamento, la nostra miglior difesa è la capacità di adattarci e crescere.
il Natale è appena trascorso, e siamo pronti ad affrontare la seconda ondata di festività tra i mille impegni. Vi chiedo di fermarvi un attimo. Già immagino qualcuno sbuffare e dire: “fermarsi? respirare è già un’impresa…”
Già è proprio così. Anche divertirsi è vissuto con ansia e di corsa. Inutile dire che non è questa la strada giusta, perché in fondo lo sapete già e quindi a maggior ragione vi dico:
“Prendetevi un breve istante subito ed adesso, ma solo per voi stessi”.
Nella speranza che stiate ancora leggendo queste brevi righe vi chiedo adesso di immaginare l’anno, che fra qualche ora sta per iniziare, non come un altro anno qualsiasi ovvero quello che arriva e scorre via come un battito di ciglia, ma come il vostro anno.
Il 2025 se vorrete potrà essere un anno di rinascita ed un percorso verso la scoperta di voi stessi.
Un anno in cui potrete alleggerire i pensieri liberandovi da pesi inutili, scartare situazioni e persone tossiche eliminandole dalla vostra vita, imparare a divertirvi rispettando i propri tempi, dedicare tempo a voi stessi imparando ad amarvi prendendovi cura del vostro corpo e del vostro spirito.
Auguro ad ognuno di voi che il 2025 sia un viaggio alla scoperta di voi stessi. Un viaggio che abbia come obiettivo il benessere, la salute e la bellezza in tutte le sue forme.
Ogni giorno incontro molte persone diverse tra loro per età, sesso, religione e cultura di appartenenza o ceto sociale e ogni giorno constato, mio malgrado, che cose un tempo scontate sono considerate obsolete. Mi riferisco a quelle pratiche naturali che riguardano educazione e rispetto che forse un tempo proposti in modo molto rigido oggi hanno creato una sorta di rigetto tanto da trovarci spesso in dimensioni opposte. Eppure i “buoni principi” hanno un’origine antica che sta alla base del vivere comune e che guidano i modi di comportarsi e relazionarsi con gli altri. Quando eravamo piccoli se non salutavamo gli adulti o un anziano venivamo sgridati. Oggi i giovani, con gli occhi attaccati ai loro cellulari, non alzano neanche lo sguardo mentre attraversano la strada figuriamoci se entra un insegnante in classe. A pranzo non si parla: genitori e figli a guardare inebetiti la tv o il proprio smartphone. Alcuni ci provano a sottolineare certi comportamenti, ma siccome l’educazione non si apprende perché si dice, ma perché si fa rimangono parole al vento. Credo che queste siano situazioni molto comuni, ma vediamo nel dettaglio cosa evidenziava i buoni principi ieri e come siamo arrivati ad oggi.
Ieri: I Buoni Principi nella Tradizione
Nel passato, i buoni principi erano fortemente radicati in valori tradizionali e religiosi. La famiglia, la comunità, e le istituzioni religiose erano i principali veicoli per trasmettere concetti come:
Onestà e integrità: Essere fedeli alla parola data e agire con correttezza erano requisiti imprescindibili per il rispetto sociale.
Rispetto per l’autorità: Autorità religiosa, genitori e figure di potere erano visti come depositari del sapere e della guida morale.
Solidarietà e spirito di sacrificio: L’individuo era spesso chiamato a sacrificare i propri bisogni personali per il bene della collettività.
Questi principi erano spesso trasmessi attraverso proverbi, racconti popolari e rituali comunitari, e rappresentavano un codice di comportamento condiviso e non negoziabile.
Oggi: I Buoni Principi nella Modernità
Nel contesto contemporaneo, i buoni principi si trovano ad affrontare nuove sfide. Con la globalizzazione, la digitalizzazione e l’evoluzione sociale, alcuni valori tradizionali hanno perso centralità, mentre altri sono stati reinterpretati o sostituiti. Tra i principi più rilevanti oggi troviamo:
Inclusività e rispetto delle diversità: Oggi, l’etica sottolinea l’importanza di riconoscere e valorizzare le differenze culturali, di genere e di opinione.
Sostenibilità ambientale: La cura per il pianeta e il rispetto per le risorse naturali sono diventati principi fondamentali per le nuove generazioni.
Autenticità e libertà personale: Si celebra la libertà di esprimere sé stessi, di vivere secondo la propria identità, rompendo con le convenzioni imposte.
La modernità, però, ha introdotto una maggiore complessità. La rapidità dei cambiamenti e l’esposizione a informazioni spesso contraddittorie rendono più difficile per le persone aderire a un insieme univoco di principi.
Somiglianze e Contrasti
Nonostante le differenze, alcuni valori rimangono universali. L’onestà e il rispetto, per esempio, continuano a essere riconosciuti come fondamenti di ogni società. Tuttavia, il contesto storico e culturale influenza profondamente il modo in cui tali valori sono interpretati e applicati.
Concludendo: I buoni principi, sia ieri che oggi, rappresentano la bussola morale di ogni comunità. La loro evoluzione dimostra che essi non sono statici, ma si adattano alle esigenze dei tempi. Questo adattamento, però, non dovrebbe mai compromettere l’essenza del vivere etico: il rispetto per sé stessi, per gli altri e per il mondo che ci circonda. E’ un argomento complesso che non può essere esaurito in poche righe, ma che mi auguro faccia riflettere. E’ indispensabile spendere un po’ di tempo ed attenzione verso alcuni valori infondo la qualità della società in cui siamo inseriti dipende un pochino anche da ognuno di noi.
Per la rubrica “Crescita e sviluppo personale” sono a proporvi una riflessione importante. La mia la condivido in fondo all’articolo, ma aspetto i vostri commenti!
Un padre ricco, volendo che suo figlio sapesse cosa significa essere povero, gli fece trascorrere un breve periodo con una famiglia di contadini. Il bambino passò tre giorni e tre notti nei campi e nella dimora dei contadini. Di ritorno in città, ancora in macchina, il padre gli chiese: “Che mi dici della tua esperienza?” – “Bene”, rispose il bambino. “Hai appreso qualcosa?” insistette il padre. 1. Che abbiamo un cane che teniamo in appartamento e loro ne hanno quattro liberi per il cortile che giocano con tanti altri animali.
Che abbiamo una piscina con acqua trattata, che arriva in fondo al giardino. Loro hanno un fiume, con acqua che scende dai monti, pesci e bellissimi scorci.
Che abbiamo la luce elettrica nel no-stro giardino, ma loro hanno le stelle e la luna per illuminarlo.
Che il nostro giardino arriva fino al muro. Il loro, fino all’orizzonte.
Che noi compriamo il nostro cibo; loro lo coltivano, lo raccolgono e lo cucinano.
Che noi ascoltiamo la musica su Spotify, loro ascoltano una sinfonia continua di usignoli, grilli e rane. Tutto questo a volte è accompagnato dal canto di un vicino che lavora la terra.
Che noi utilizziamo il microonde. Ciò che cucinano loro ha il sapore del fuoco lento.
Che noi, per proteggerci, viviamo circondati da recinti con allarme; loro vivono con le porte aperte, protetti dall’amicizia dei loro vicini.
Che noi viviamo collegati al cellulare, al computer, alla televisione. Loro sono collegati alla vita, al cielo, al sole, all’acqua, ai campi, agli animali e alle loro famiglie.” Il padre rimase molto impressionato dai sentimenti del figlio. Alla fine, il figlio concluse: “Grazie per avermi insegnato quanto siamo poveri! Ogni giorno diventiamo sempre più poveri perché ci allontaniamo sempre più dalla natura”.
Concludendo: abbiamo sempre più cose, ma siamo sempre più poveri ed infelici. Ci manca il contatto con la terra, non prestiamo più attenzione ai colori della natura, al profumo dei fiori, al suono del vento e dei ruscelli. Siamo sempre più isolati, sfuduciati e soli. Non sappiamo più sognare, aspettare o sacrificarci. Vogliamo tutto e subito. Ciò che che riceviamo è già vecchio e siamo pronti a pretendere una nuova cosa in una ricerca infinita di felicità nelle cose sbagliate che non portano all’obiettivo, ma anzi ci allontanano.
Oggi voglio porre l’attenzione ad un approccio particolare che vede il cibo non solo come nutrimento, ma come strumento di benessere e terapia per migliorare la salute fisica, mentale ed emotiva: sto parlando della cucina terapeutica!
Questo concetto si fonda sull’idea che scegliere, preparare e consumare determinati alimenti in maniera consapevole possa influire positivamente su varie condizioni di salute, aiutando le persone a sentirsi meglio sia nel corpo che nella mente.
Conosciamo la cucina terapeutica punto per punto:
1. Cibo come medicina: la base della cucina terapeutica
L’antica tradizione di considerare il cibo come una medicina è alla base della cucina terapeutica. Da secoli, in varie culture, l’alimentazione è stata usata come mezzo per prevenire e curare malattie. L’Ayurveda e la medicina cinese, ad esempio, si basano su principi secondo cui i cibi hanno proprietà specifiche che influenzano l’equilibrio del corpo e della mente. Anche nella dieta mediterranea – oggi riconosciuta come una delle più sane al mondo – sono presenti alimenti che aiutano a combattere le infiammazioni, proteggono il cuore e sostengono il sistema immunitario.
2. Le basi della cucina terapeutica: ingredienti funzionali
La cucina terapeutica si focalizza sull’uso di ingredienti funzionali – alimenti che possiedono composti benefici per la salute – come antiossidanti, fibre, vitamine e minerali. Ecco alcuni esempi di cibi usati in cucina terapeutica:
Curcuma: nota per le sue proprietà anti-infiammatorie e antiossidanti, è spesso utilizzata per migliorare le condizioni artritiche e la salute del cervello.
Zenzero: ottimo per il sistema digestivo, contribuisce ad alleviare nausea, gonfiore e indigestione, ed è un anti-infiammatorio naturale.
Frutti di bosco: ricchi di antiossidanti, proteggono le cellule dai danni ossidativi e favoriscono la salute cardiaca e cerebrale.
Legumi: contengono fibre e proteine vegetali che regolano i livelli di zucchero nel sangue e riducono il rischio di malattie cardiovascolari.
3. Cucina terapeutica per la salute mentale
La connessione tra cibo e salute mentale è un campo di ricerca in rapida crescita. Oggi sappiamo che l’alimentazione ha un ruolo chiave nel sostenere la salute mentale. Alcuni nutrienti possono infatti influenzare l’umore, la memoria e la capacità di concentrazione. Ad esempio:
Acidi grassi Omega-3: presenti nel pesce azzurro, semi di lino e noci, contribuiscono alla salute del cervello e possono ridurre i sintomi di depressione e ansia.
Vitamina D: è associata al miglioramento dell’umore e alla prevenzione della depressione stagionale.
Probiotici: questi batteri benefici, presenti in yogurt e altri alimenti fermentati, migliorano la salute intestinale, influenzando positivamente anche la produzione di neurotrasmettitori come la serotonina.
4. Il potere della cucina consapevole
Preparare cibi terapeutici può diventare un atto di consapevolezza e di connessione. La preparazione e il consumo consapevole dei cibi non solo ci aiutano a scegliere ingredienti più sani, ma ci portano anche a essere più presenti nel momento. Questa connessione tra mente e corpo è alla base di molte pratiche olistiche. Si è osservato che chi pratica la cucina consapevole, prestando attenzione ai colori, alle consistenze e ai profumi degli ingredienti, riesce a ridurre lo stress e a migliorare la propria qualità della vita.
5. Cucina terapeutica per disturbi specifici
Alcuni programmi di cucina terapeutica vengono personalizzati per aiutare chi soffre di malattie croniche, come diabete, sindrome metabolica e disturbi gastrointestinali. In questi casi, la cucina terapeutica diventa un mezzo per ridurre l’uso di farmaci o migliorare l’efficacia delle terapie tradizionali. Ad esempio:
Diabete di tipo 2: alimenti a basso indice glicemico, come i cereali integrali, le verdure a foglia verde e le proteine magre, possono aiutare a stabilizzare i livelli di zucchero nel sangue.
Malattie autoimmuni: si consiglia di limitare alimenti pro-infiammatori, come zuccheri raffinati e grassi saturi, e di favorire cibi ricchi di antiossidanti, vitamine e minerali.
Sindrome dell’intestino irritabile (IBS): una dieta ricca di fibre solubili e probiotici, e povera di grassi e alimenti processati, può alleviare i sintomi.
6. Esempio di una giornata di cucina terapeutica
Ecco un esempio di menù di cucina terapeutica pensato per migliorare la salute del corpo e della mente:
Colazione: Porridge d’avena con frutti di bosco, semi di chia e un pizzico di cannella.
Pranzo: Insalata di quinoa con spinaci, ceci, carote grattugiate, avocado e dressing allo zenzero e limone.
Spuntino: Yogurt greco con un cucchiaio di semi di lino e miele.
Cena: Salmone al forno con contorno di broccoli e patate dolci arrostite al rosmarino.
7. Il ruolo del professionista della cucina terapeutica
La cucina terapeutica può essere gestita da esperti come nutrizionisti o cuochi specializzati che collaborano con medici per sviluppare piani alimentari personalizzati, in base alle esigenze individuali. Il ruolo del professionista è essenziale per educare le persone a identificare e usare ingredienti funzionali in base alla propria condizione di salute.
Concludendo:
La cucina terapeutica rappresenta un approccio preventivo e curativo, capace di migliorare la qualità della vita attraverso un’alimentazione consapevole e mirata. Integrando i principi di una dieta equilibrata con pratiche di preparazione attente e ingredienti scelti, possiamo non solo nutrire il corpo ma anche supportare la salute mentale e la gestione di disturbi cronici. La cucina diventa così un atto terapeutico, un vero e proprio percorso di benessere da vivere quotidianamente.
Seguono i cinque punti affrontati con una tazza di tisana durante il primo aperitivo in salute presso Farmacassia nella serata di ieri. Vi aspetto numerosi anche al prossimo appuntamento che avrà luogo il 21 ottobre p.v.
Abitudini italiane
Molte delle abitudini familiari che conosciamo e mettiamo in pratica hanno avuto origine nel dopoguerra. Molti dei piatti della tradizione italiana nascono dalle capacità delle mamme che con poco riuscivano a sfamare famiglie numerose. Così continuiamo a fare preparazioni che avevano senso quando si mangiava una volta al giorno, ma che diventano “pesanti” oggi che quotidianamente apriamo il frigorifero almeno 20 volte!! Ma continuiamo a prepararli perché si è sempre fatto così.
Credenze
In ogni famiglia ci sono abitudini che vengono spesso da credenze errate, Credenze nate nel passato e che oggi sono state sfatate da recenti scoperte mediche, ma cambiare è difficile e ci si ancora ad abitudini anche se sono controproducenti.
Immagini distorte tra realtà e social
I social sono ingannevoli lo sappiamo tutti eppure siamo stregati da immagini di corpi perfetti molto difficili da proporre nella realtà. Ecco che l’ideale del corpo perfetto si scontra con una realtà imperfetta un gioco in cui si è perdenti in partenza.
Pensare che sia il cibo il problema
Quando si fa una dieta tutta la giornata gira attorno al cibo, si pensa alla spesa, alla preparazione, quanto tempo manca all’ora dei pasti. Si sente più fame del solito, la voglia di sgarrare aumenta.
Evitamento della rinuncia per sentirsi liberi attraverso il cibo
Conosciamo tutti il potere rassicurante del cibo ed il suo effetto coccola quando siamo stanchi o arrabbiati, ma esiste anche un altro effetto: per molti il mangiare è un atto liberatorio. Molte persone sono costrette a dire sempre sì o si sentono in dovere di farlo. Sale l’ansia che viene abbattuta con il cibo. Mangiare è socialmente accettabile molto più che dire no e ci si ritrova a mangiare fuori misura anche solo per sentirsi liberi di decidere.
Uno dei principali benefici di un break dal lavoro è la possibilità di cambiare ambiente. Questo cambiamento non è solo un’opportunità per esplorare nuovi luoghi e culture, ma ha anche un impatto significativo sul nostro benessere psicologico. Vediamo in dettaglio come il cambiamento di ambiente può influenzare positivamente la nostra mente e il nostro umore.
Interruzione della routine
Cambiare ambiente permette di interrompere le routine quotidiane che spesso possono diventare monotone e stressanti. Questa interruzione può offrire una pausa mentale, riducendo lo stress e fornendo una nuova prospettiva sulla vita. Lasciare temporaneamente il proprio ambiente lavorativo e domestico consente di “resettare” la mente, facilitando una sensazione di freschezza e rinnovamento al ritorno.
Stimolazione mentale
Visitare nuovi luoghi e sperimentare nuove culture stimola la mente in modi che l’ambiente familiare non può fare. Le nuove esperienze attivano la curiosità e l’apprendimento, promuovendo una maggiore attività cerebrale. Questo può migliorare la nostra creatività, aumentare la nostra capacità di risolvere problemi e arricchire la nostra comprensione del mondo.
Riduzione dello stress
Essere in un nuovo ambiente, lontani dalle pressioni e dalle preoccupazioni quotidiane, può ridurre significativamente i livelli di stress. L’esposizione alla natura, in particolare, è stata associata a una riduzione dell’ansia e del cortisolo, l’ormone dello stress. Spiagge, montagne, foreste e altri ambienti naturali offrono una fuga dalla frenesia della vita cittadina, promuovendo un senso di pace e tranquillità.
Miglioramento dell’umore
Il cambiamento di scenario può anche avere effetti positivi sull’umore. Esplorare nuovi luoghi e vivere nuove avventure può indurre una sensazione di eccitazione e felicità. Inoltre, il sole e l’aria aperta, tipici delle vacanze estive, aumentano la produzione di vitamina D, che è stata collegata a miglioramenti dell’umore e a una riduzione del rischio di depressione.
Rafforzamento delle relazioni
Condividere nuove esperienze con amici e familiari in un ambiente diverso può rafforzare i legami. Le vacanze offrono l’opportunità di trascorrere del tempo di qualità insieme, lontani dalle distrazioni quotidiane. Le attività condivise, come esplorare nuovi luoghi, partecipare a eventi culturali o semplicemente rilassarsi insieme, possono creare ricordi duraturi e migliorare le relazioni interpersonali.
Aumento della flessibilità mentale
Affrontare nuove situazioni e adattarsi a nuovi ambienti può aumentare la nostra flessibilità mentale. Questo adattamento migliora la nostra capacità di affrontare cambiamenti e imprevisti, sviluppando una mentalità più resiliente e aperta. La flessibilità mentale è una competenza preziosa nella gestione dello stress e nel miglioramento del benessere generale.
Conclusione
Il cambiamento di ambiente offerto dalle vacanze estive è un potente strumento per migliorare la salute mentale e il benessere psicologico. Interrompendo la routine, stimolando la mente, riducendo lo stress e migliorando l’umore, le vacanze estive ci permettono di ritornare alla vita quotidiana con energia rinnovata e una prospettiva più positiva. Sfruttare al massimo questa opportunità può fare una grande differenza nel nostro equilibrio emotivo e nella nostra qualità della vita.
Fra qualche ora ci sarà la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici a Parigi, questo ha scatenato in me alcune considerazioni riguardo le donne e lo sport. Io sono sempre stata una sportiva ed ho avuto in pista le mie soddisfazioni (ormai troppi anni fa!) e le Olimpiadi hanno rappresentato sempre un momento di grande emozione, ma in effetti ha stimolato anche grandi interrogativi personali e sociali al riguardo. Poi mi arriva una mail dall’Ordine degli Psicologi del Lazio che riassume e puntualizza molti punti interessanti che io dedico di condividere con voi.
Vi chiedo di leggere tutto e condividere le vostre considerazioni!
*E’ il 16 aprile del 1967: una foto in bianco e nero immortala il momento in cui un giudice di gara della maratona di Boston strattona l’atleta con il pettorale n. 261 per impedirgli di tagliare il traguardo. Di quale violazione era responsabile quell’atleta? Aveva un rossetto rosso e lunghi capelli mossi. Era una donna. Kathrine Switzer è la prima donna a partecipare a una maratona e, visto che si supponeva che il corpo femminile fosse inappropriato per quella competizione, la sua trasgressione è uno scandalo e anche il primo passo per l’abbattimento di un tabù. Di storie come queste se ne potrebbero raccontare tante: ipocriti giudizi di inadeguatezza per escludere le donne dalle competizioni sportive o, quantomeno, per tenerle ai margini del campo. Giova sempre dire che i tempi sono cambiati. Sì, lo sono. Ma non abbastanza, visto che sul tema dell’accesso allo sport grava ancora un importante disparità di genere. Qualche dato su cui sono state fatte ricerche documentate: i genitori ritengono che fare sport sia più importante per i figli maschi chE’ il 16 aprile del 1967: una foto in bianco e nero immortala il momento in cui un giudice di gara della maratona di Boston strattona l’atleta con il pettorale n. 261 per impedirgli di tagliare il traguardo. Di quale violazione era responsabile quell’atleta? Aveva un rossetto rosso e lunghi capelli mossi. Era una donna. Kathrine Switzer è la prima donna a partecipare a una maratona e, visto che si supponeva che il corpo femminile fosse inappropriato per quella competizione, la sua trasgressione è uno scandalo e anche il primo passo per l’abbattimento di un tabù. Di storie come queste se ne potrebbero raccontare tante: ipocriti giudizi di inadeguatezza per escludere le donne dalle comE’ il 16 aprile del 1967: una foto in bianco e nero immortala il momento in cui un giudice di gara della maratona di Boston strattona l’atleta con il pettorale n. 261 per impedirgli di tagliare il traguardo. Di quale violazione era responsabile quell’atleta? Aveva un rossetto rosso e lunghi capelli mossi. Era una donna. Kathrine Switzer è la prima donna a partecipare a una maratona e, visto che si supponeva che il corpo femminile fosse inappropriato per quella competizione, la sua trasgressione è uno scandalo e anche il primo passo per l’abbattimento di un tabù. Di storie come queste se ne potrebbero raccontare tante: ipocriti giudizi di inadeguatezza per escludere le donne dalle competizioni sportive o, quantomeno, per tenerle ai margini del campo. Giova sempre dire che i tempi sono cambiati. Sì, lo sono. Ma non abbastanza, visto che sul tema dell’accesso allo sport grava ancora un importante disparità di genere. Qualche dato su cui sono state fatte ricerche documentate: i genitori ritengono che fare sport sia più importante per i figli maschi che per le figlie femmine; le ragazze nella pubertà hanno molta più probabilità di abbandonare l’attività sportiva dei ragazzi (il fenomeno che si chiama drop out); le donne dopo i quarant’anni ammettono che fare sport sarebbe importante per la propria saluta fisica e mentale ma l’organizzazione del quotidiano (calibrare il tempo delle priorità: lavoro, casa, famiglia) rende l’opzione di investire nello sport una pallida chimera.
Per non parlare, sempre stando alle statistiche, dello sport “societario”. Le donne rappresentano solo il 18% degli allenatori qualificati, percentuale che scende al 9% nel caso degli allenatori senior. Nel 2016, meno del 30% dei soggetti negli organi direttivi olimpici, il 16,6% nei Comitati Olimpici Nazionali e il 18% nelle Federazioni Sportive internazionali erano donne. Questo orienta anche le scelte di marketing: molto più redditizio “spingere” atleti maschi, che godendo di più visibilità mediatica fanno aumentare gli introiti, suffragando un meccanismo molto ben oleato.
La psicologia ci consente però di guardare tra le pieghe dei meccanismi, di allargare lo sguardo in cerca di orizzonti più ampi. E se prevalentemente si associa la Psicologia dello Sport con l’area della performance sportiva (chi può mettere in discussione che per uno sportivo l’equilibrio emotivo e la motivazione psicologica valgano tanto quanto una buona preparazione fisica?), questa branca della psicologia si occupa anche di dare nuove chiavi di lettura e d’intervento rispetto a quella che Jung chiamerebbe la coscienza collettiva, ovvero quel complesso di giudizi a-priori, griglie di pensiero e interpretazione del reale, modelli di comportamento acquisiti e validi “per lo più”, a cui difetta l’acutezza di sguardo, il luogo della rottura, del ripensamento, del cambiamento.
Il gruppo di lavoro Psicologia dello Sport e dell’esercizio fisico dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, coordinato da Luana Morgilli insieme ai colleghi Maria Maddalena Ferrari e Sergio Costa, insieme a Paola Biondi (referente delle Pari Opportunità dell’Ordine), ha realizzato nel 2023 una campagna di sensibilizzazione sulle tematiche che riguardano le differenze di trattamento tra atleti ed atlete e le difficoltà connesse all’essere donna nell’ambito sportivo. Nella doppia intervista realizzata dal gruppo, in cui gli atleti della Nazionale di Pallanuoto Domitilla Picozzi e Marco Del Lungo si confrontano sulla loro esperienza sportiva, alcuni aspetti banali evidenziano come lo sport sia sostanzialmente tarato sul maschile: dagli allenamenti nelle ore serali, che allarmano le atlete e le obbligano in alcuni casi a fare gruppo per potersi spostare in sicurezza, alle differenze di trattamento economico.
C’è quindi molto che il contributo della psicologia può dare per sensibilizzare gli ambienti sportivi in primis ma anche la società estesa, per ridurre stereotipi e storture che rendono l’esperienza sportiva per le donne più problematica.petizioni sportive o, quantomeno, per tenerle ai margini del campo. Giova sempre dire che i tempi sono cambiati. Sì, lo sono. Ma non abbastanza, visto che sul tema dell’accesso allo sport grava ancora un importante disparità di genere. Qualche dato su cui sono state fatte ricerche documentate: i genitori ritengono che fare sport sia più importante per i figli maschi che per le figlie femmine; le ragazze nella pubertà hanno molta più probabilità di abbandonare l’attività sportiva dei ragazzi (il fenomeno che si chiama drop out); le donne dopo i quarant’anni ammettono che fare sport sarebbe importante per la propria saluta fisica e mentale ma l’organizzazione del quotidiano (calibrare il tempo delle priorità: lavoro, casa, famiglia) rende l’opzione di investire nello sport una pallida chimera.
Per non parlare, sempre stando alle statistiche, dello sport “societario”. Le donne rappresentano solo il 18% degli allenatori qualificati, percentuale che scende al 9% nel caso degli allenatori senior. Nel 2016, meno del 30% dei soggetti negli organi direttivi olimpici, il 16,6% nei Comitati Olimpici Nazionali e il 18% nelle Federazioni Sportive internazionali erano donne. Questo orienta anche le scelte di marketing: molto più redditizio “spingere” atleti maschi, che godendo di più visibilità mediatica fanno aumentare gli introiti, suffragando un meccanismo molto ben oleato.
La psicologia ci consente però di guardare tra le pieghe dei meccanismi, di allargare lo sguardo in cerca di orizzonti più ampi. E se prevalentemente si associa la Psicologia dello Sport con l’area della performance sportiva (chi può mettere in discussione che per uno sportivo l’equilibrio emotivo e la motivazione psicologica valgano tanto quanto una buona preparazione fisica?), questa branca della psicologia si occupa anche di dare nuove chiavi di lettura e d’intervento rispetto a quella che Jung chiamerebbe la coscienza collettiva, ovvero quel complesso di giudizi a-priori, griglie di pensiero e interpretazione del reale, modelli di comportamento acquisiti e validi “per lo più”, a cui difetta l’acutezza di sguardo, il luogo della rottura, del ripensamento, del cambiamento.
Il gruppo di lavoro Psicologia dello Sport e dell’esercizio fisico dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, coordinato da Luana Morgilli insieme ai colleghi Maria Maddalena Ferrari e Sergio Costa, insieme a Paola Biondi (referente delle Pari Opportunità dell’Ordine), ha realizzato nel 2023 una campagna di sensibilizzazione sulle tematiche che riguardano le differenze di trattamento tra atleti ed atlete e le difficoltà connesse all’essere donna nell’ambito sportivo. Nella doppia intervista realizzata dal gruppo, in cui gli atleti della Nazionale di Pallanuoto Domitilla Picozzi e Marco Del Lungo si confrontano sulla loro esperienza sportiva, alcuni aspetti banali evidenziano come lo sport sia sostanzialmente tarato sul maschile: dagli allenamenti nelle ore serali, che allarmano le atlete e le obbligano in alcuni casi a fare gruppo per potersi spostare in sicurezza, alle differenze di trattamento economico.
C’è quindi molto che il contributo della psicologia può dare per sensibilizzare gli ambienti sportivi in primis ma anche la società estesa, per ridurre stereotipi e storture che rendono l’esperienza sportiva per le donne più problematica.e per le figlie femmine; le ragazze nella pubertà hanno molta più probabilità di abbandonare l’attività sportiva dei ragazzi (il fenomeno che si chiama drop out); le donne dopo i quarant’anni ammettono che fare sport sarebbe importante per la propria saluta fisica e mentale ma l’organizzazione del quotidiano (calibrare il tempo delle priorità: lavoro, casa, famiglia) rende l’opzione di investire nello sport una pallida chimera.
Per non parlare, sempre stando alle statistiche, dello sport “societario”. Le donne rappresentano solo il 18% degli allenatori qualificati, percentuale che scende al 9% nel caso degli allenatori senior. Nel 2016, meno del 30% dei soggetti negli organi direttivi olimpici, il 16,6% nei Comitati Olimpici Nazionali e il 18% nelle Federazioni Sportive internazionali erano donne. Questo orienta anche le scelte di marketing: molto più redditizio “spingere” atleti maschi, che godendo di più visibilità mediatica fanno aumentare gli introiti, suffragando un meccanismo molto ben oleato.
La psicologia ci consente però di guardare tra le pieghe dei meccanismi, di allargare lo sguardo in cerca di orizzonti più ampi. E se prevalentemente si associa la Psicologia dello Sport con l’area della performance sportiva (chi può mettere in discussione che per uno sportivo l’equilibrio emotivo e la motivazione psicologica valgano tanto quanto una buona preparazione fisica?), questa branca della psicologia si occupa anche di dare nuove chiavi di lettura e d’intervento rispetto a quella che Jung chiamerebbe la coscienza collettiva, ovvero quel complesso di giudizi a-priori, griglie di pensiero e interpretazione del reale, modelli di comportamento acquisiti e validi “per lo più”, a cui difetta l’acutezza di sguardo, il luogo della rottura, del ripensamento, del cambiamento.
Il gruppo di lavoro Psicologia dello Sport e dell’esercizio fisico dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, coordinato da Luana Morgilli insieme ai colleghi Maria Maddalena Ferrari e Sergio Costa, insieme a Paola Biondi (referente delle Pari Opportunità dell’Ordine), ha realizzato nel 2023 una campagna di sensibilizzazione sulle tematiche che riguardano le differenze di trattamento tra atleti ed atlete e le difficoltà connesse all’essere donna nell’ambito sportivo. Nella doppia intervista realizzata dal gruppo, in cui gli atleti della Nazionale di Pallanuoto Domitilla Picozzi e Marco Del Lungo si confrontano sulla loro esperienza sportiva, alcuni aspetti banali evidenziano come lo sport sia sostanzialmente tarato sul maschile: dagli allenamenti nelle ore serali, che allarmano le atlete e le obbligano in alcuni casi a fare gruppo per potersi spostare in sicurezza, alle differenze di trattamento economico.
C’è quindi molto che il contributo della psicologia può dare per sensibilizzare gli ambienti sportivi in primis ma anche la società estesa, per ridurre stereotipi e storture che rendono l’esperienza sportiva per le donne più problematica.
Hai spesso la sensazione di non aver concluso nulla? La sera ti accorgi di non aver fatto neanche la metà di ciò che ti eri proposto? Hai mai fatto caso a quanto tempo ed energie sprechi durante il giorno?
Ti dimostrerò in pochi punti in quanti momenti della giornata sprechi tempo senza che te ne accorgi….
Ti preoccupi troppo per quello che dicono gli altri. Spendi tempo ed energie a compiere azioni o dire cose che possano non metterti in cattiva luce anche andando contro la tua volontà o necessità. Questo non fa bene. Se te ne preoccupi vuol dire che sei il primo che giudica quindi fai attenzione. Del giudizio puoi tenerne conto solo se ti aiuta a migliorare altrimenti non prenderlo in considerazione.
Procrastini: Rimandi in continuazione le cose importanti per dedicarti a quelle urgenti! Impara a gestire le priorità! Se sei stanco inutile continuare a lavorare: farai errori e perderai un sacco di tempo.
Ti lamenti Lamentarsi puòrappresentare uno sfogo, ma dilungarsi troppo in lamentele senza trovare soluzioni non è utile. Dà una visione di te stesso inconcludente mentre attivarsi dà una sferzata all’autostima.
Tempo al telefono e sui social: A meno che non sia parte del tuo lavoro non stare al telefono oltre le due ore al giorno! Vivere le vite degli altri sui social non è vita. Non credere che ti stai rilassando: il tuo cervello sta ricevendo migliaia di input al secondo tra immagini, luci e suoni.
Rimuginare su cose di cui non hai il controllo: Ci sono situazioni di cui dobbiamo semplicemente prendere atto, integrarle e accettarle se non possiamo fare altrimenti. Inutile perdere tempo e riempirsi di angosce su cose che non possiamo modificare Cercare soluzioni o adattarsi al meglio è sicuramente più utile.
Questi sono solo alcuni dei comportamenti che riscontro spesso nelle persone. Ce ne sono di altri, ma questi sicuramente sono i più presenti.
Lascio qualche piccolo consiglio per evitare di sprecare tempo utile cercando di vivere una vita di qualità e non solo vivere!
Sostituisci o alterna lo smartphone con un bel libro, un film o un documentario. Almeno avrai imparato qualche cosa e ti sarai rilassato.
Fai un elenco delle cose che devi assolutamente fare in una giornata e spunta man mano che le fai
Cerca di andare a pranzo e cena fuori solo il fine settimana e gli altri giorni mangia in modo sano.
Non serve fare i forzati del divertimento. Riposa se ne senti il bisogno. La nostra salute è importante non può essere messa sempre all’ultimo posto.
Oggi facevo sull’argomento queste considerazioni con una ragazza in cerca della sua prima casa con l’attuale “ragazzo”. Si conoscono da due anni, stanno bene insieme, lavorano entrambi è arrivata l’ora di andare a vivere insieme, ma non di sposarsi, perché “tanto è uguale”.
Sarà proprio vero? Dalla mia esperienza in termini psicologici, e a livello di normativa, ho fatto le mie ricerche, in realtà non è proprio la stessa cosa!
Vediamo insieme cosa succede se si decide di sposarsi o andare a convivere.
Partiamo dai Significati:
matrimonio: secondo l’autorevole Treccani: Unione fisica, morale e legale dell’uomo (marito) e della donna (moglie) in completa comunità di vita, al fine di fondare la famiglia e perpetuare la specie. La parola matrimonio deriva dalla parola latina matrimonium, che, a sua volta, è un derivato della parola mater, che significa madre.(dal web)
convivenza: Vivere insieme, abitare nella stessa casa. Fare vita comune come marito e moglie pur non essendo sposati
Sebbene dal punto di vista affettivo, se ci si ama, il fatto di essere sposati o meno non fa la differenza, dal punto di vista psicologico non è proprio così e neanche dal punto di vista sociale.
IL MATRIMONIO
Il matrimonio è un rito di passaggio nel quale i due fidanzati acquisiscono uno status ufficiale condiviso dalla collettività e diventano famiglia. La cerimonia sancisce il momento e simboli come la fede nunziale ne permettono il riconoscimento dello status a livello sociale. A livello psicologico sposarsi può essere considerato rassicurante come il momento in cui si finisce di cercare e si decide di stare con quella persona per sempre, ma ricordate che non è una data di fine (come nelle favole) ma una data di inizio. Non bisogna pensare solo alla festa, ma a ciò che significa e a ciò che segue. Ci vuole impegno, pazienza e amore affinchè un matrimonio funzioni. Insieme a valori condivisi, all’accettazione dell’altro e all’idea che spesso i sacrifici sono necessari.
LA CONVIVENZA
Nella convivenza il riconoscimento del legame è un fatto personale della coppia, non avviene alcun riconoscimento dall’esterno. Il passaggio da “io e te” a “Noi” non è sancito da un “rito di passaggio” che definisce un momento dall’altro nella vita di due persone.
Diritti e doveri si definiscono autonomamente in base alle proprie caratteristiche personali e non vengono imposte da un contratto. Dal punto di vista sociale è spesso considerato come un rapporto di serie B.
Dal punto di vista strettamente psicologico, perché si dovrebbe scegliere la convivenza? -Per sentirsi più liberi- -Per non pagare gli avvocati in caso di incomprensioni – sono le risposte più frequenti. Ma io credo che si sia di più. Forse non si è certi del legame? Forse si cerca una via di fuga al bisogno? Forse ci si dà un’altra possibilità se si cambia idea?
Credo sia necessario essere onesti nel rispondere anche ad altre domande come:
-Sono in grado di prendermi un impegno nel lungo termine?- – Penso di arrendermi alla prima difficoltà o voglio lottare per il mio rapporto?-
Quindi sposarsi o convivere?
Vediamo cosa succede se ci sono figli.
Per il bambino se i genitori convivono o sono sposati per il suo sviluppo non c’è alcuna differenza. Per un bambino conta solo come si trattano la mamma ed il papà, se si amano, se lo amano e se c’è serenità in casa. Anche dal punto di vista dei diritti essere figli naturali o legittimi è lo stesso infatti sussiste l’obbligo al mantenimento e all’istruzione per entrambi i genitori.
La differenza, riguarda la parentela con le famiglie d’origine dei genitori. Un figlio naturale non ha legami di parentela con i fratelli dei genitori e con i loro figli: attenzione “per la legge” il bambino non ha né zii nè cugini. Il vincolo di parentela, a livello giuridico, si ha solo in linea diretta ovvero con i nonni. Questo comporta inevitabilmente anche delle differenze per i diritti di successione: il figlio naturale eredita solo dai genitori e dai nonni, mentre il figlio legittimo eredita da tutti i parenti fino al sesto grado di parentela. Sono in corso delle variazioni giuridiche, ma attualmente questa è la situazione.
Altre cose da considerare: se il bimbo nato al di fuori del matrimonio non viene riconosciuto dal padre, solo la mamma ha dei doveri verso di lui. Se i neogenitori dovessero lasciarsi, se il papà non contribuisce al suo mantenimento bisognerà rivolgersi al Tribunale dei Minorenni. Il riconoscimento è importante anche per tutelare il diritto del papà nel visitare il suo bambino e partecipare alla sua educazione.
Inoltre se la coppia è sposata automaticamente il bambino acquisisce il cognome del padre e la denuncia di nascita può essere effettuate indifferentemente dalla mamma o dal papà alla direzione sanitaria dell’ospedale di nascita oppure all’ufficio anagrafe del comune di residenza mentre in caso di convivenza devono recarsi entrambi.
Da ricordare che l’articolo 143 del Codice Civile sancisce diritti e doveri della coppia sposata. Tra gli obblighi troviamo la fedeltà, la reciproca assistenza, la collaborazione e la coabitazione. Entrambi sono tenuti, in base alle proprie capacità personali ed economiche a contribuire ai bisogni della famiglia.
Questo significa che nella convivenza la donna (in alcuni casi l’uomo) non è tutelata.
Ad esempio se nasce un figlio e ci si lascia il padre non è obbligato ad aiutare economicamente la donna che magari ha lasciato il lavoro per accudire proprio il figlio! DI QUESTE STORIE VE NE POSSO RACCONTARE A DECINE, ma non voglio essere di parte per cui continuo a dare informazioni in modo obiettivo. In caso di separazione legale invece il coniuge con più disponibilità economiche è obbligato ad aiutare il partner e non solo ad accudire il figlio.
Cosa succede se uno dei due coniugi viene a mancare? Se si è sposati l’altro coniuge e figli legittimi ereditano direttamente, mentre in caso di convivenza bisogna redigere un testamento. Solo per le coppie sposate poi è possibile beneficiare della reversibilità della pensione.
Anche nei confronti del fisco le cose non sono le stesse. Se si è sposati ed uno dei due coniugi non lavora può essere a carico del partner lavoratore ed avere dei benefici fiscali, come poter detrarre eventuali spese mediche, mentre ciò non è previsto per il convivente.
Recentemente sono avvenute alcune modifiche al Codice Civile riconoscendo alcuni diritti alle coppie di fatto.
Tra i più rappresentativi evidenzio:
La legge 40 del 2004 ha previsto l’accesso al percorso della procreazione medicalmente assistita anche ai conviventi. Inoltre il garante della privacy nel 2005 ha riconosciuto il diritto di un convivente ad avere notizie di salute sul partner e, in caso di ricovero ospedaliero, di richiedere la sua cartella clinica.
Recenti sentenze della Corte Costituzionale hanno sancito il diritto del convivente a succedere al partner (in caso di decesso) nel contratto di locazione della comune abitazione e, sempre in caso di disgrazia, di chiedere un risarcimento danni, proprio come accade per le coppie sposate.
Ad ulteriore tutela della donna nell’articolo (342 bis) del Codice Civile, si dispone l’allontanamento dalla casa della coppia del convivente che dovesse comportarsi male nei confronti della compagna, mettendo a rischio la sua integrità fisica e/o morale o la sua libertà.